giovedì 27 marzo 2008

Muovo le molecole immobili

“Forse non è proprio legale, sai, ma sei bella vestita di lividi
il coraggio, annullare i miei limiti,
le tue lacrime in fondo ai miei brividi
Lasciami leccare l’adrenalina, voglio cercare la mia alternativa,
è la scossa più forte che ho”

Torno ad avere sedici anni, senza averli, di fatto, mai avuti.
Il mio corpo non mi ha mai giocato scherzi strani da adolescente.
Non mi sono mai lasciata andare ad esplosioni ormonali.
Non mi sono mai vista brutta, non sono mai stata complessata.
Né per l’aspetto fisico, né per il mio comportamento.
Ero, in compenso, dotata di un’enorme forza di carattere, di una sfrontataggine che rasentava l’arroganza, di un senso della giustizia che travalicava l’individuale per gettarsi a capofitto nel metafisico. Ero più rock di tutti i capelloni col giubbotto di pelle e le camicie di flanella che si possano vedere a Camden Town: parole semplici su armonie banali, grandi schitarrate ruffiane, melodie orecchiabili ma mai superficiali, tutto per esprimere l’abisso di ogni esperienza.
Il mio corpo adesso racchiude una me stessa che lo ricopre di amore, di affetto e di attenzioni, in nome di una omologazione che dovrebbe portarmi autostima e invece mi causa frustrazione. Anche smettere di accudirlo –come se ormai fosse altro da me– mi porta alla frustrazione, in un circolo vizioso di insoddisfazioni e ricerca della soddisfazione che non si chiuderà mai.
Alla mia rabbia, alla mia sete di giustizia cosmica, di ordine, di non-gerarchie, si è sostituito un annaspante tentativo di sopravvivenza, sempre a boccheggiare per cercarsi una definizione, per poter dire almeno ciò che non si è, per potersi dire parte di qualcosa, perché a sedici anni non sentivo il bisogno di uscire dal mio universo –perché era perfetto così– mentre ora le macerie di me stessa mi spingono fuori a cercare almeno gli arnesi per la ricostruzione. E oltre a questo, oltre alla presa di coscienza di aver perso lo stato migliore della mia vita, oltre all’ammissione di essere ridotti a un cumulo di rottami irrecuperabili, oltre alla snervante ricerca esteriore, ecco la scoperta: fuori non c’è nulla che possa aiutarmi. Fuori c’è il sistema in cui, in un dato momento non identificabile, ma forse anche in piccoli momenti insignificanti, ho deciso di entrare. Fuori c’è il sistema che otto anni fa combattevo coi denti, con le viscere, con il sangue. Fuori c’è il sistema per cui se non ti muovi sei fregato, per cui prendere in mano la tua vita vuol dire darti quotidianamente spinte propulsive per andare avanti, senza chiederti perché, solo correre, solo avanzare, solo la laurea, i bei voti, i pezzi di carta, fare soldi, andare a vivere fuori, ogni tanto farti una vacanza per raccontarla e per raccontarti che ti sei concesso del tempo e che in fondo tutto questo dà dei buoni frutti. Fuori c’è il sistema per cui l’aspetto fisico conta anche per una come me che non gli ha mai dato peso, perché già che ti muovi cerca di farlo con stile, come le piccole altre formichine operose che ti stanno attorno. Fuori c’è il sistema per cui è già qualcosa se ogni tanto leggi, se guardi film “colti” e se sai dire due cazzo di opinioni sulla vita di merda, politica economica e tutte le menate di cui tutti gli pseudo borghesi del cazzo come me si riempiono la bocca per rincoglionirsi e convincersi che non fanno schifo come tutto il resto.
Prendere la vita in mano vuol dire saperci rinunciare solo nel rispetto di te stessa e solo per tua decisione, essere padroni della propria esistenza vuol dire coltivare il proprio rispetto e pretenderlo senza dover addurre motivazioni, significa smetterla di muoversi quando non si capisce dove si stia andando, vuol dire essere coerenti e non doversi mai tirare indietro contro la propria volontà. Prendere in mano la propria vita vuol dire sapere di poterla finire quando si vuole. Senza peccati, bestemmie, sofferenze, ipocrisie. Nessuna ipocrisia peggiore di dirsi felici senza esserlo.
Io non voglio essere un congegno a tempo, comandata da forse esterne.
E allora si ritorna al rock.
Si ritorna agli Afterhours e riscopri “Lasciami leccare l’adrenalina” e “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” e capisci che c’era già qualcosa che non andava in te quando hai cominciato a preferire “Bianca” alle altre due. Eri già nel sistema. Riscopri “Festa mesta” dei Marlene e pensi a tutte le volte che avresti voluto dire tu, alla fine di una serata “Complimenti per la festa, bella festa del cazzo”.
E certo anche i rocker amano, e quindi salvi le ballad romantiche, la salvi “Voglio una pelle splendida” perché è una preghiera e anche il rock ha degli dei. E così anche “Non è per sempre”, perché anche i guerrieri hanno bisogno di sentirsi dire che finiscono tanto le cose belle quanto quelle brutte. E sì, poi salvi il punk se proprio si deve, e lo ska e il reggae, ma non sono quelli il tuo manifesto. Puoi adorare la Bandabardò, ma non puoi combattere con “Venti bottiglie di vino e un po’ d’erba del vicino”.
A sedici anni senti nel rock qualcosa che non sai.
A ventidue anni dopodomani senti che quei cazzo di trentenni che sembrano giocare a fare gli eterni adolescenti hanno capito tutto. E hanno quest’unico grande mezzo, la musica, per esprimere il loro disgusto, non farsi fregare dal sistema e cercare di aprirti gli occhi passando per le orecchie.
Voglio smettere di trastullarmi in una vita di stilemi. Lasciatemi leccare l’adrenalina, quella vera, quella delle mie tragedie, quella che sgorga fuori dal sublime di un’esistenza.

domenica 16 marzo 2008

Una cosa che basterebbe sentirsi dire ogni tanto

SOLO TU (Mambassa feat. SUSHI)

tu che sai cosa dirò
già
prima che risponda
tu che perdoni i miei vizi
e non ti blocchidi fronte ai miei imbarazzi
così stupidi
tu che fai l'errore ideale
di vedermi speciale
stai pensando che io vada via?
come puoi soltanto credere che sia
così, quando tu
sei la sola persona che mi sa difendere
la sola persona che mi sa comprendere
qual'è l'unica cosa che mi fa sentire vivo?solo tu

baci di esplosivo candore
un air-bag
che scoppia al rallentatore
tienimi tra le mani
mentre piove sul porfido
tieni le mie mani
mentre vomito il cuore
in diecimila parole
e tu non guardi più
come puoi pensare che io vada via?
come puoi soltanto credere che sia
così, quando tu
sei la sola persona che mi sa difendere
la sola persona che mi sa comprendere
la sola persona che mi sa sorprendere
qual'è l'unica cosa che mi fa sentire vivo?solo tu

PS: La mia vita mi piaceva di più a sedici anni, quando me ne sentivo tanto padrona da poter decidere di privarmene.

mercoledì 5 marzo 2008

Facile a dirsi

Un monaco si lamentò con il suo maestro perché non riusciva a raggiungere il versante opposto di una montagna.
"La colpa è tua" gli rispose il maestro. "In che cosa sbaglio? Che cosa mi manca?" domandò l’allievo.
"Vieni con me, e te lo mostrerò." Il maestro chiamò un altro discepolo, che era cieco, e tutt’e tre si recarono sulla montagna, in un punto in cui uno stretto tronco era stato gettato su un burrone. "Attraversa!" disse il maestro al primo monaco. Il poveretto guardò il fondo del burrone, il debole tronco e rispose: "Non posso: ho paura". Allora il maestro si rivolse al discepolo cieco e gli diede lo stesso ordine. Il monaco attraversò senza esitare il burrone. "Hai capito?" domandò il maestro al primo monaco.
È sempre la paura il sentimento che si oppone al nostro risveglio: la paura di essere autonomi, la paura dell’ignoto, la paura della responsabilità. Eppure, per colmare il divario, per raggiungere l’altra riva, è necessarioaffrontare l’abisso; e questo non può essere fatto se non si eliminano mille timori che ci accompagnano nell’attraversamento."

domenica 2 marzo 2008

Ora più che mai

La vita è un pendolo che oscilla fra noia e dolore.
Il velo di Maya è tutto ciò che vedo ma non andrebbe detto.
Maya non è la mia volontà.
Maya è il mio orgoglio.
Maya è grande e trasparente.
Sono fregata.

sabato 1 marzo 2008

La Maieutica dell'istruttore di nuoto

Nella mia controversa attività acquatica, mi sono imbattuta in molti istruttori, tre dei quali indimenticabili, nel bene e nel male.

- Il primo: io avrò avuto sei anni, lui faceva la maturità e mi sembrava un vecchio. Faceva troppo lo scemo con noi bambine, che, a quell'età, neppure capivamo i pruriginosi stimoli che mangari facevano apprezzare quel modo di fare da galletto alle sue coetanee. Un idiota, insomma. Che si è rivelato tale, in tutta la sua essenza, al corso successivo, quando la piccola Me, promossa in vasca "grande" si ritrova con la sua tavoletta a galleggiare a 4 metri dal fondo. Tutto splendido, "Guarda mamma sono nell'acqua alta!", una bracciata a destra, una bracciata a sinistra, ooop respiro e via. Bello. Peccato che a metà vasca comincio ad allontanarmi un po' dal percorso, vado verso una delle corsie. Il sedicente maturando (puf, la terza elementare doveva ancora prendere mi sa) prende un bastone di metallo con un gancio per tirarmi verso il centro. Peccato che centra in pieno la tavoletta con un colpo troppo forte, mi scivola di mano per lo spavento e la piccola Me passa un brutto quarto d'ora.

Niente piscina per almeno quattro anni. La mutter poi, stufa della mia paura e preoccupata che questo sentimento si diffonda come il morbillo anche al fratellino, ci sbatte entrambi al Dopo Lavoro Ferroviario, dove incontro lui,

-Il secondo: tale Caraffa di cognome, nome ignoto, a me già stava simpatico perchè gli era toccato di nascere discendente di una stirpe dal blasone tanto buffo. Senza contare che ogni sacrosanto giorno dei tre mesi d'estate per due estati stava lì a bordo vasca a urlare incoraggiamenti e farmi i complimenti per i passi avanti. Incurante dei miei "Non riesco", "Ho paura" e, nei giorni di scazzo e desolazione, dei semplicissimi "No" che lasciavano poco spazio a risposte di sorta.
L'anno dopo ero in corsia con le pinne a nuotare a delfino ed ero una delle più brave e veloci.

Gli anni passano, ma al mare la Me già cresciutina anzi direi quasi donna, non nuota. Continua a non fidarsi. Senza contare che, nelle attività quotidiane, le viene troppo spesso male alla schiena. Insomma. Ricominciamo un corso. (Tanto ormai si è capito a chi daranno il Premio Fedeltà quelli della Federazione Italiana di Nuoto). Mi iscrivo a Cremona e arriva lui:

- Il terzo: Enzo, anche conosciuto come il panzone di almeno 50 anni con il costumino blu a stelle bianche che in 7 bracciate percorre la corsia. Molto divertente. Intanto, da buona tradizione lombarda, caccia fuori un "figa" ogni due parole. Si distingue soprattutto per la tendenza all'urlo e per una certa ironia con cui mi sono imbattuta proprio giovedì scorso:
"Facciamo rana? Dai dai dai!" - faccio io. C'è da dire che ci ha spiegato una volta sola le gambe a rana, e che io e Rossano eravamo gli unici due passabili, visto che il povero Enzo ha dovuto rimediare allo sconforto degli altri con la frase "Bè ma rane ci si nasce". Insomma volevo fare una cosa che mi veniva proprio bene e parrebbe anche per meriti di Madre Natura.
"Certo, verso la fine la facciamo"- risponde lui ridendo.
"Bene, è contento che vogliamo progredire" - penso constatando il fatto che in due mesi ci sta ammazzando di stile libero e dorso completo e basta.
Ultimi cinque minuti. "Ragazzi allora, ultimo giro, tutti a stile tranne Marialuisa che va giù a rana". GULP.